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Alda Merini,per la prima volta in manicomio a 16 anni

Alda Merini
Scriveva nel suo libro l' altra verità: Quando mi ci trovai nel mezzo credo che impazzii sul momento stesso in quanto mi resi conto di essere entrata in un labirinto dal quale avrei fatto fatica ad uscire. Improvvisamente, come nelle favole, tutti i parenti scomparvero.

Alda ci fa conoscere le condizioni dei malati prima della legge Basaglia, le umiliazioni, le violenze, i maltrattamenti inferti dai medici e dagli infermieri. A quel tempo la Legge n°36 del 1904 riguardante le “Disposizioni sui manicomi e sugli alienati” stabiliva che: “Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé e agli altri o riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché dai manicomi”. Alda non era pericolosa, molti tra quelle mura non lo erano, ma come lei stessa ci ricorda “la donna era soggetta all’uomo”, non ha avuto voce in capitolo, per ciò che riguardava la sua vita. La sua esperienza all’interno dei manicomi l’ha vista prima succube della sua stessa malattia, del suo destino. Successivamente entrandoci volontariamente ha vissuto e sperimentato con coscienza quel mondo fatto di sofferenza, quel mondo che aveva come soluzione quella di spersonalizzare, di addormentare il paziente con le sue pillole: “Nelle malattie mentali la parte primitiva del nostro essere, la parte strisciante, preistorica, viene a galla e così ci troviamo a essere rettili, mammiferi, pesci, ma non più esseri umani. Così la mia bellezza si era inghirlandata di follia, ed ora ero Ofelia, perennemente innamorata del vuoto e del silenzio, Ofelia bella che amava e rifiutava Amleto”. Per Alda tutto ciò che è fuori da quelle mura non esiste più, è morto. Quel mondo che l’ha rifiutata, sputata via come un qualcosa di andato a male, non ha più motivo di esserci tra i suoi pensieri. L’amore e la famiglia sono ormai concetti superati, quasi non contano più: “Mio marito non veniva mai a trovarmi. Ogni giorno mi appostavo davanti all’ingresso e mi accoccolavo per terra, proprio come una geisha, e aspettavo per ore che lui si facesse vivo. Poi, vinta dalla stanchezza e con le lacrime agli occhi, tornavo nel mio reparto”.Tra le sue pagine ci racconta l’amore tra i padiglioni che separavano le donne dagli uomini, descrive con delicatezza il dolce Pierre, pieno di attenzioni e di tenerezza nei suoi confronti. Del manicomio la poetessa rimpiangerà tutto, specialmente la non socialità. Fuori cerca disperatamente di crearsi dei legami, una nuova vita fatta di affetti che si rivela soltanto un’ennesima delusione. Alda scrisse lettere, cercò dei nuovi contatti in maniera disperata quasi, forse maniacale comprendendo che probabilmente nessuno l’avrebbe mai più cercata di propria iniziativa. Solo le sue parole l’hanno tenuta in vita. Le sue parole hanno man mano acquisito un senso, mettendosi in fila come tanti soldatini l’hanno aiutata nella sua più difficile battaglia. Un dono immenso, che lei stessa non sapeva spiegarsi. Il senso della sua poesia le era sconosciuto, ci si abbandonava con naturalezza nella terra dei sogni. I sogni riuscivano a cullarla, le suggerivano la via da percorrere nel suo mondo reale: “È una forza che nasce in me, come una gravidanza che deve essere portata a termine. Molti mi considera la poetessa della pazzia ma chi si è accorto che sono la poetessa della vita? Ho parlato del manicomio perché era il luogo in cui vivevo in quel periodo”. Il dottor Enzo Gabrici, lo psichiatra che l’aveva seguita durante gli anni del manicomio, ha sempre creduto con forza che la creatività della scrittura fosse stata per la sua paziente la sola ed unica medicina contro il suo dolore: “Se io non ho una base, non ho un sogno da custodire ed allevare dentro il mio cuore, non posso più scrivere e di conseguenza non potrei nemmeno vivere”. Figlia del proprio vissuto, intenso, doloroso, pieno di solitudine

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