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La lingua italiana 700 anni dopo Dante

Dante
A settecento anni dalla morte di Dante Alighieri abbiamo intervistato il prof. Michele Di Salvo

A settecento anni dalla morte di Dante Alighieri abbiamo intervistato il prof. Michele Di Salvo, chiedendogli quale sia lo stato di salute della lingua italiana, alla luce anche dell’uso massiccio delle nuove tecnologie capaci di influenzare l’idioma nazionale come mai prima.

Messinese, teologo, studioso di filosofia e teologia russa, in particolare dell’opera di padre Pavel Florenskij, il prof. Di Salvo tiene corsi presso il dipartimento di filologia romanza dell’Università Ortodossa “S. Tikhon” di Mosca, con la quale collabora dal 2005. Da anni si dedica allo studio e all’insegnamento dell’italiano e di altre lingue a studenti della Federazione Russa e di altri paesi.

Professore, chi era il Sommo Poeta?

Era un insigne intellettuale e letterato vissuto nel tardo Medioevo eppure già moderno e tuttora attuale, un politico animato da altissimi ideali morali e civili, per i quali è stato disposto a pagare in prima persona. Dante è un nostro grande connazionale dalla fede cattolica inconcussa, che merita pienamente il titolo di “padre della lingua italiana” e questi festeggiamenti in occasione del settimo centenario della morte.

A chi si rivolgeva con le sue opere?

Optando per il volgare toscano nella composizione della Comedìa e del Convivio, il Nostro intende rivolgersi ad un vasto pubblico, ben più ampio di quello raggiungibile con un’opera in latino, dimostrando una notevole dose di coraggio e lungimiranza intellettuale. Affrontando temi d’indole politologica, storica, filosofica, teologica, scientifica, s’inserisce da par suo nel solco delle questioni dibattute al suo tempo, dovendo al contempo difendersi dai tanti avversari personali che a vario titolo punteggiarono la sua movimentata esperienza terrena. Nel Convivio, poi, si esplicita un’intenzionalità didattica sin dal titolo: Dante si presenta idealmente come un “ristoratore”, che offre succulente pietanze allo spirito dei propri commensali-lettori.

A suo avviso ritiene sia stato studiato a dovere in Italia?

Non si può dire che in Italia manchino eminenti studiosi dell’opera dantesca, il sommo Poeta viene poi immancabilmente proposto ai nostri studenti; tuttavia sembra che ciò non basti a farlo sentire veramente “nostro”. Questa mancata “appropriazione” è riconducibile da una parte alla disaffezione nostrana alla letteratura in genere, e dall’altra ad un’oggettiva “distanza”: si tratta di un autore vissuto secoli fa, che affronta temi legati alle contingenze storiche del suo tempo, dispiegando un’erudizione enciclopedica che spiazza il lettore sprovvisto di un’adeguata preparazione. Ben vengano, dunque, tutte quelle iniziative come letture commentate in pubblico, documentari e simili, che ci aiutano a colmare tale distanza, facendoci riscoprire quella perenne attualità che caratterizza tutti i grandi del passato.

Qual è lo stato di salute della nostra lingua 700 anni dopo Dante?

Certamente il nostro idioma nazionale non rischia di sparire da qui a pochi anni, però non si può non notare un generalizzato calo delle competenze linguistiche dei nostri connazionali, che ha spinto nel 2017 un folto gruppo di docenti universitari ed intellettuali a redigere un appello significativamente intitolato “Saper leggere e scrivere: una proposta contro il declino dell’italiano a scuola”.
E non si tratta di vacua pignoleria, perché esprimersi in maniera trasandata, sfocata, riflette ed alimenta un’attività di pensiero consequenziale: parliamo come pensiamo, e viceversa. Più volte mi è stato obiettato che “l’importante è farsi capire”, mostrando di misconoscere che – come ha scritto il Nobel messicano Octavio Paz – “un popolo comincia a corrompersi quando si corrompe la sua grammatica e la sua lingua“.

Come valuta il ricorso ai neologismi e all’uso sempre maggiore di parole straniere nella lingua parlata?

I neologismi sono una componente fisiologica di tutte le lingue che – come recita un proverbio arabo – sono degli esseri viventi, e come tali naturalmente caratterizzate da nuovi apporti. Il problema è, invece, la capacità di una Iingua di recepire dall’esterno in maniera organica senza snaturarsi: tutti notiamo una vera e propria invasione di lemmi anglo-americani, che giungono a rimpiazzare i corrispettivi italiani con esiti che talora rasentano il ridicolo. Com’è abbastanza evidente, responsabili del fenomeno sono in gran parte i professionisti della comunicazione mediatica: il filmese il doppiaggese, e fenomeni analoghi sono ben noti da tempo agli studiosi di scienze linguistiche.

Cosa fare, dunque?

Il cambiamento può iniziare, per così dire, con un atto d’amore e di lealtà a vari livelli verso l’italiano, che è la lingua che ci appartiene e che rappresenta uno scrigno del lascito culturale dei nostri padri. Per esperienza professionale posso assicurare che l’italiano è non poco apprezzato nel mondo, è considerato melodioso, positivo, simpatico: sin dalla nascita siamo depositari di un tesoro insospettato, più spendibile di quanto non si creda nel villaggio globale.
Nelle scuole si dovrebbe poi puntare più direttamente allo sviluppo delle competenze linguistiche, un pò come facciamo noi, mutatis mutandis, nell’insegnamento dell’italiano agli stranieri, evitando che lo studio della letteratura distolga da questo obiettivo, risolvendosi in mera erudizione.

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