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Cineforum Don Orione: Gli anni amari

Andrea Adriatico con questo film ha riempito un vuoto: ha cioè saputo portare sullo schermo qualcuno che, come lui stesso afferma “era un genio, che ci ha sedotto come riusciva a sedurre tutti coloro con cui entrava in relazione.”

 

Primi anni ’70. A partire dal liceo milanese in cui Mario Mieli non nasconde la propria omosessualità dicendo di chiamarsi Maria, si affrontano le tappe della vita privata e pubblica di una personalità che sia nel campo della liberazione sessuale sia in quello artistico ha trovato il modo di esprimersi senza remore, provocando nella società del tempo dei necessari scontri ma anche dei confronti che hanno inciso sul futuro.

Grazie alla performance di Nicola Di Benedetto che offre a Mieli tutti i diversi stati emotivi di una personalità complessa su più versanti, stimola chi vedrà il film ad andarsi a leggere o a ri-leggere quanto accadeva nella società italiana dei primi anni ’70, a scoprire cos’era il FUORI, a cercare filmati in cui il vero Mieli esprime il proprio pensiero.

Adriatico riesce non solo a raccontare con aderenza, anche sul piano filologico, quegli anni e ciò che si muoveva all’interno del mondo omosessuale ma anche a rendere con grande acutezza il clima che si respirava nella famiglia Mieli. Sarebbe stato facile, come a volte accade, trasformare padre, madre, fratelli di Mario in macchiette retrive e ridicole. Invece no. Grazie ad un minuzioso lavoro di casting troviamo Antonio Catania che ci mette di fronte al personaggi di un industriale della seta incapace di accettare questo figlio troppo ‘diverso’ ma al contempo gli inietta una dose di amarezza che nasce proprio da questo sentirsi privo di strumenti di comprensione.

Lo stesso accade per fratelli e sorelle a cui vengono concesse poche battute che delineano però un distacco auto protettivo o una avversione dettata da quella norma che Mario combatteva. Insieme a una zia che non parla ma che osserva e tutto comprende abbiamo poi la madre di Sandra Ceccarelli (va ringraziato ogni regista che ce la fa ritrovare sullo schermo) che ha nello sguardo tutto l’amore e tutta la tensione di chi comprende e vorrebbe anche sostenere ma è costretta a non oltrepassare i limiti imposti da un ruolo familiare che non può essere mai del tutto dimenticato.

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Morrison di Federico Zampaglione: ore 21,30

Morrison rivela fin dal titolo il grande amore per la musica di Federico Zampaglione, frontman e cantautore dei Tiromancino, che firma la sua quarta regia di lungometraggio e cofirma la sceneggiatura con Giacomo Gensini, adattando per il grande schermo il loro romanzo “Dove tutto è a metà”.

 

Lodovico è il frontman dei Mob, una band romana che si esibisce al Morrison, locale sul lungotevere che da trent’anni dà spazio alla musica locale “sopravvivendo a tutto”. Il ragazzo ha talento ma è profondamente insicuro e trema ogni volta che deve salire in palcoscenico. È anche innamorato di Giulia, un’attrice con cui divide l’appartamento ma che ha una storia con il suo agente (sposato). Un giorno alla sede della SIAE Lodovico garantisce per Libero Ferri, un cantautore che ha avuto il suo momento di gloria e ora vive rintanato in una villona ai margini della Città Eterna, senza riuscire a comporre nessun’altra hit: accanto a lui è rimasta solo la moglie Luna, che continua a credere nelle capacità del marito e lo spinge ad uscire dal suo isolamento. Fra Libero e Lodovico nascerà un’amicizia che avrà conseguenze per entrambi.

L’idea di raccontare il potere salvifico della musica, così come la solidarietà che si può creare fra musicisti, è poetica e stimolante, e avrebbe potuto dare luogo ad un film alla Quasi famosi, soprattutto in mano di chi conosce bene quell’ambiente e può raccontarlo “dal di dentro”.

Invece Morrison sembra rimanerne sempre al di fuori, raccontando il mondo musicale attraverso quelle convenzioni fictional che a poco a poco finiscono per smantellare l’autenticità della premessa. Per la prima mezz’ora infatti la storia parte bene, pur in una chiave giovanilistica, ma da un certo punto in poi si perde narrativamente, complice una regia impacciata che, come Lodovico, sembra non riuscire mai ad agguantare il ruolo di frontman cinematografico, per restare timidamente ai margini di una vera originalità di linguaggio filmico.

Non aiutano nemmeno alcuni discorsi ben intenzionati ma che finiscono per scivolare nella retorica, e molti dialoghi in cui c’è sempre qualcosa di troppo, come se non ci si riuscisse a fermare al beat finale: e questo, per un musicista che sa quando “chiudere” e come creare riff memorabili, è un peccato.

Fonte: mymovies

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