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Pompei, la città fantasma

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È uno dei siti archeologici italiani più visitati al mondo, l'emblema della furia devastatrice del Vesuvio, il vulcano che si staglia proprio alle sue spalle: Pompei, la città fantasma, sorprende i visitatori che affollano le sue strade e le insulae ogni giorno.

Qui il tempo si è fermato alla data del 24 ottobre 79 d.C., ma la sua storia è molto più antica.

La città, in origine, nacque come insediamento osco, soppiantato qualche secolo più tardi dalla prepotenza del popolo sannita; venne, infine, conquistata dai romani nel I secolo a.C.

La città crebbe gradualmente per merito del fiorente commercio che caratterizzò il periodo a cavallo del I secolo a.C. e il I secolo d.C., ma si interruppe bruscamente quel maledetto giorno del 79 d.C., in piena età imperiale, quando una catastrofica eruzione vulcanica si abbatté sulla località campana ammantandola con una coltre di sei metri di lava. Si stima che circa 20.000 anime persero la vita a seguito dell’evento. E proprio la colata lavica ha funto da protezione che ha consentito la conservazione quasi totale del sito, preservato dalle intemperie, fino al XVIII secolo, quando i primi scavi archeologici fecero riaffiorare la “città dormiente”. Subito si comprese la ricchezza che caratterizzava Pompei nel I secolo d.C.: le vie urbane ospitavano numerose botteghe artigianali e ville lussuose i cui affreschi parietali e mosaici sono ancora visibili nella loro bellezza. E poi c’era il foro, cuore pulsante della città dove si svolgevano tutte le attività principali della vita quotidiana.

Le zone limitrofe alla città costituivano la fonte primaria del sostentamento, grazie alla qualità dei terreni e al clima favorevole che regalavano ricchi raccolti: non è un caso che i  romani attribuirono l’aggettivo “felix” tutto l’entroterra campano.

Un “locus amoenus“, se volessimo utilizzare una locuzione tipicamente latina, che smise di brillare dopo l’eruzione che colse di sorpresa i cittadini che abitavano alle pendici del Vesuvio.

Oltre alle preziose testimonianze archeologiche, siamo in grado di ricostruire gli istanti immediatamente successivi alla devastazione grazie alla testimonianza dello scrittore Plinio il Giovane, nipote di quel Plinio il Vecchio che perse la vita per portare soccorso ai pochissimi superstiti. Plinio, che all’epoca del disastro era poco più che un fanciullo, in una lettera inviata all’amico Publio Cornelio Tacito (il celebre storico autore delle “Historiae”) racconta: “La nube si levava, non sapevamo con certezza da quale monte, poiché guardavamo da lontano; solo più tardi si ebbe la cognizione che il monte fu il Vesuvio. La sua forma era simile ad un pino più che a qualsiasi altro albero. Come da un tronco enorme la nube svettò nel cielo alto e si dilatava e quasi metteva rami. Credo, perché prima un vigoroso soffio d’aria, intatto, la spinse in su, poi, sminuito, l’abbandonò a se stessa o, anche perché il suo peso la vinse, la nube si estenuava in un ampio ombrello: a tratti riluceva d’immacolato biancore, a tratti appariva sporca, screziata di macchie secondo il prevalere della cenere o della terra che aveva sollevato con sé”. 

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