Skip to content

Rosa Balistreri, cantautrice siciliana della passione

rosa_balistreri_MessinaWebTv_Cultura
Donna mai sottomessa e moderna, che ha cantato contro la violenza alle donne

CU TI LU DISSI ( canzone di Rosa Balistreri)

Cu ti lu dissi ca t’haju a lassari ,

megliu la morti

e no chistu duluri.

Ahj ahj ahj ahj

moru moru moru moru.

Ciatu di lu me cori,

l’amuri miu si tu.

Cu ti lu dissi a tia nicuzza,

lu cori mi scricchia

a picca a picca a picca a picca.

Ahj ahj ahj ahj

 moru moru moru moru.

Ciatu di lu me cori,

l’amuri miu si tu.

Lu primu amuri lu fici cu tia

e tu schifiusa

ti stai scurdannu a mia.

Paci facemu, oh nicaredda mia.

Ciatu di l’arma mia,

l’amuri miu si tu.

CHI TE LO HA DETTO

Chi te lo ha detto,

che debbo lasciarti,

meglio la morte

e non questo dolore

Ahj ahj ahj ahj muoio,

muoio, muoio, muoio,

anima della mia anima,

l’amore mio sei tu.

Chi lo ha detto a te piccolina,

il cuore mi si scricchiola

a poco a poco, a poco a poco.

Ahj ahj ahj ahj muoio,

 muoio, muoio, muoio,

anima della mia anima,

 l’amore mio sei tu.

Il primo amore l’ho fatto con te

e tu schifiltosa

ti stai scordando di me.

Pace facciamo,

oh piccolina mia,

anima della mia anima,  l’amore mio sei tu.

La Rosa è il fiore dell’amore, della passione, dei momenti più intimi dell’animo umano. Si può amare ed odiare a prescindere dai sentimenti, come ci fa capire questa canzone. Una lucida vita percorsa tra dolori e attimi di serenità è quella della “Rosa” in questione. Rosa Balistreri è poetessa, che nel corso della vita si è fatta guidare da un infame destino, quello degli sfortunati. È quel destino che, qualche volta, le ha fatto sfiorare il pensiero di un gesto inconsulto. “Cu ti lu dissi” è una tra le sue più  famose canzoni. Canto d‟amore, mutevole amore, passione disperata. L’innamorata, “ciatu di lu me cori”, è il vero ed unico amore. La canzone dal punto di vista stilistico è composta da endecasillabi. Seppur potrebbe sembrare ridondante, non lo è affatto. Sono, anzi,  le stesse parole che attraggono il pubblico nella cadenza ripetuta della canzone, in quell’anafora, che diviene poesia d’amore. Rosa Balistreri, nata a Licata, il  21 marzo 1927 è morta a Palermo, il  20 settembre 1990. La vita della cantante folk oscilla tra l’estrema povertà e le violenze di quella società arcaica del Sud, in cui l’uomo è antagonista delle donne. Per lei, dopo molti anni di vita travagliata, giunge il successo.

È stata artista e cantautrice, studiosa delle canzoni popolari  siciliane. Nei suoi canti tratta il tema degli ultimi, dello sfruttamento delle classi sociali.

È ritenuta donna emancipata e vittoriosa di prove tormentate da una difficile vita. In Sicilia, terra dominata da tanti popoli, greci, romani, cartaginesi, arabi, normanni, francesi, spagnoli, si sono mescolati dialetti, filastrocche, leggende. Qui è cultura e lingua, che esprime sentimenti dell’animo umano,  amore e angoscia. Nella musica si intersecano canzoni funerarie, serenate d’amore e canti di minatori. Canzoni con autore sconosciuto, tramandate di generazione, divenute “vox populi”. Tutto è fonte di usi, costumi e credenze, di abitudini, dove storia e politica si fondono. Ha avuto il merito di aver reagito a violenze e ingiustizie, in una Sicilia retrograda, che disprezza la condizione femminile. Mai sottomessa, si è ribellata con il canto in quella guerra vinta con il suo pubblico. Rosa di Licata, quartiere della Molina, vive la realtà di paese. La sua modestissima casa al piano terra aveva una sola stanza, occupata da padre, madre e figli. Rosa, bambina, sfugge alla povertà, cantando e ballando. Sua nonna è vedova a trent’anni, sola con nove figli. Sua madre, sposa  a quattordici, con un uomo conosciuto. Il maschio è il dominatore, così il matrimonio, prigione infernale, le offre bastonate, litigi e cinque figli. Il più piccolo fratello della cantante è Vincenzo, paralitico. Rosa, che è la maggiore, si prenderà cura di lui. Non potrà studiare; dovrà andare a salare le sarde o lavorare dalle famiglie ricche. Sua mamma per aiutare la famiglia impaglia sedie o impacchetta scope. Il padre ebanista, artigiano, è bravo nel creare attrezzi da lavoro. Va nei paesi su un carretto a cercare lavoro, da Licata a Palma, a Campobello, a Butera, per tutta la Sicilia. È, però, uomo violento e geloso. Non vuole che la moglie esca di casa senza il suo permesso, nè affacciarsi dalla finestra. La violenza passa dalla moglie ai figli. Vorrebbe trovare lavoro a Palma, città povera è sporca. La fame imperversa e in un campo di frumento va a raccogliere spighe. Rosa frequenta la chiesa di San Giuseppe, a Campobello di Licata. Il prete coinvolge i bambini con caramelle e pane e mortadella. A causa della fame prova l’umiliazione dell’elemosina. Uno scialle addosso chiede la carità; poi compra pasta e olio. Intanto a Campobello sbarcano gli americani. Elargiscono cioccolato, biscotti, sigarette e scatolame. Restano impietriti per la fame e miseria. Saccheggiano i magazzini e con le dispense dei ricchi saziano tutto il paese. Frank è un americano attraente, che guarda Rosa, bella ragazza. Vorrebbe sposarla, ma vuole la prova d’amore. La Sicilia è Sicilia e ci sono delle regole. Se la prima notte di nozze l’uomo non trova una moglie integra, l’abbandona. Frank, va via in America e così per lei finisce il sogno americano. Rosa, piena di sè per la sua giovinezza, per guadagnare va a servizio da benestanti. È felice, quando a quindici anni, con i soldi guadagnati, si compra un paio di scarpe. È così felice che canta con ardore. Si fa conoscere per la sua rigogliosa e penetrante voce. Riesce a fine giornata a ricevere cibo. In famiglia tutti vogliono cercarle un marito. Zia Mariannina vorrebbe farle sposare suo figlio Angilinu, giovane dai capelli ricci, che suona la chitarra. In Municipio prima  delle pubblicazioni zia Mariannina pretende la dote: camicie, lenzuola, mutande a ventiquattro. Rosa di camicie ne ha soltanto una, dunque niente matrimonio. A diciassette anni sposa Gioacchino Torregrossa, detto Iachinazzu. Rosa non lo conosce, tuttavia non si contesta la volontà paterna. Una zia le “costruisce” una trappola; le dice che Iachinazzu sta male e che deve essere soccorso a casa. Iachinazzu chiude la porta a chiave e prende Rosa con la forza. Esce incinta e deve sposarsi. Vita di violenze, parolacce e calci con  Iachinazzu, mezzo ladro e ubriacone. Rosa abortisce per le botte, tanto che in attesa del loro figlio, dovrà metterlo al mondo già morto. In seguito con i soldi del corredo della bambina, che sta per nascere, si va ad ubriacare. Rosa, in preda al limite della pazienza, In un litigio si ritrova tra le mani una lima, di suo padre, e ferisce Iachinazzu. Condannata a sei mesi di carcere, poi Rosa, con la bambina,  trova lavoro in una vetreria a Licata.  Il padrone, un giorno abusa di lei, e per la vergogna Rosa se ne deve andare. Lavora a raccogliere lumache, fichi d’india, capperi e sarde salate. Stanca, lascia Licata, la bambina alla madre e parte per Palermo. Trova lavoro presso una famiglia di insegnanti con due figli. Il primo studia medicina all’università. La corteggia, assicurandola di volerla sposare. Dalla relazione aspetta un bambino. Il giovane le suggerisce un rimedio infame: rubare alla madre dei soldi per un ambulatorio medico. Dopo il furto, Rosa che è costretta a fuggire, viene arrestata. Farà sette mesi all’Ucciardone e, con il dolore nel cuore, intuisce che l’amante si è pagato dei debiti di gioco. Scontata la pena in carcere, percepisce di essere una disonorata. Quando tutte le speranze crollano, arriva la sua salvatrice. Lei, disperata, nel penitenziario, conosce una levatrice che, prima del parto, le trova rifugio nella sua casa. Al momento del parto il bimbo nasce morto. Rosa trova rifugio, come governante dai conti Testa. Finalmente le sembra di rinascere per merito della contessa. Si mette a studiare; impara a leggere e a scrivere. Scrive il suo nome e se ne compiace. Quando i bambini crescono, i padroni cercano una governante colta, tuttavia le trovano lavoro come sacrestana  nella chiesa di Maria Santissima degli Agonizzanti. Lì c’è monsignor Campanella, che le affida un lavoro sicuro e alloggio, anche a suo fratello, che fa il calzolaio. Il guadagno è poco, ma il vitto e alloggio non le mancano. I guai ricominciano alla morte di monsignor Campanella. Giunge un prete, indegno della veste sacrale che porta. Vorrebbe approfittare di lei e, poichè Rosa non glielo permette, la caccia via. Riesce a prendere dalle cassette dell’elemosina un po’ di soldi e va via da quella canonica. Vuole fuggire lontano, stanca delle ingiustizie. Con il fratello Vincenzo, la figlia Angela, prende un treno fino a Firenze. Lì, giovane e bella, trova lavoro e alloggio. Chiamerà l’intera famiglia d’origine.Trovano tutti lavoro. Anche la sorella Maria parte dalla Sicilia con i suoi bambini. Piena di ecchimosi, anche lei per il marito violento, trova lavoro. Un giorno egli perviene a Firenze e vorrebbe che Maria ritornasse in Sicilia. Dopo un suo diniego, con un coltello la uccide. Fugge via, viene arrestato e processato. Nuovamente sulla famiglia Balistreri crolla la disperazione più totale. Il padre depresso, in preda allo sconforto si impicca, davanti ad un palazzo sul Lungarno. Non è dato sapere se per le voci di una presunta prostituzione delle figlie o per il dolore della morte di Maria. Solleva ancora il capo Rosa. Da quei castighi nasce la sua ispirazione, il suo canto disperato. Quella voce robusta, penetrante, pungente, ma afflitta, attira il pubblico. Donna che ha saputo lottare, assolvere e dimenticare. È per gli sfortunati, per gli ultimi, che darà la sua voce, anche per i carcerati del penitenziario di Barcellona Pozzo di Gotto, provincia di Messina. Nella Firenze degli anni Sessanta, tutto è diverso da Licata. La domenica pomeriggio si balla. Farci anche l’amore, senza doversi sentire proprietà di nessuno, vuol dire libertà. L’emancipazione incrementa. Rosa si frequenta con il pittore Manfredi Lombardi, colto ed aristocratico. Va vivere con lui. Donna moderna con una decorosa retribuzione, oltre che vendere frutta e verdura, canta. La sua voce piace a Manfredi. È tramite lui che riesce a conoscere Michele Straniero. La casa discografica “Ricordi” di Milano le fa incidere il suo primo disco. Il poeta Giuseppe Ganduscio gli insegna le canzoni folk della sua terra. Sono quelle che l’etnomusicologo Alberto Favara aveva custodito nel Corpus delle canzoni popolari siciliane; poi altre da Paolo Emilio Caparezza a Palermo. Fortuito incontro con il poeta Ignazio Buttitta e Ciccio Busacca. Veste i panni di cantastorie di strada. La donna del Sud Italia impara con Saverio Bueno la chitarra. Rosa Balistreri, racconta le storie angoscianti popolari della sua terra d’origine. Studia il canto siciliano dai libri degli amici e poeti intellettuali.  Studia raccolte, canti e temi di Lionardo Vigo, Giuseppe Pitrè, Salvatore Salomone Marino, Francesco Paolo Frontini. Tutto ha un sapore unico e travolgente, cantato da lei con il suono della sua chitarra. Viene invitata ad uno spettacolo di Dario Fo “Ci ragiono e canto” del 1966, in cui sono presenti i migliori cantastorie Italiani. L’attore la sceglie come voce della Sicilia. Debutta al Teatro “La Pergola” di Firenze e dalla sua voce si evincono tutti gli elementi che hanno costellato la sua vita: dolore, violenza, melodia, amabilità, e asprezza. Forte, imperterrita nelle sue scelte coraggiose, non ha mai ceduto al destino dei “vinti” del Verga. L’amore senza pudore è prevalso nella mentalità chiusa e retrograda della Sicilia di quegli anni. Si è rialzata ed ha conquistato con il canto non solo il folto pubblico italiano, ma anche quello degli emigrati, degli italoamericani che se ne sono innamorati. La Balistreri, esempio di donna mai sottomessa, è moderna anche nel 2022. Le donne contro la violenza devono ribellarsi non soltanto per sè stesse ma per tutte le donne del mondo.

Condividi questo post